La norma a tutela del Made in non è stata congelata dal governo, nonostante le pressioni in tal senso fossero molteplici, e anzi sembra aprirsi uno spiraglio affinché sia L’Europa ad attivarsi in tal senso, cosa che poi era negli auspici del legislatore quando aveva gettato il sasso nella palude stagnante delle normative sull’etichettatura di origine con la legge 99, che introduceva per i brand italiani che producono all’estero l’obbligo di dichiarare esplicitamente il luogo di origine dei loro prodotti. Il rischio, però, è che adesso la stessa norma venga stravolta. E’ questa la preoccupazione che aleggia negli uffici dell’Unione Industriale Pratese, da sempre in prima linea per chiedere maggiore tutela del Made in e per arrivare alla tracciabilità dei prodotti tessili.
Tra gli aspetti positivi vanno senz’altro annoverati i recenti contatti fra il Vice ministro allo Sviluppo economico Adolfo Urso e la Commissaria europea al Commercio estero Catherine Ashton, che fanno ben sperare sull’efficacia della mossa italiana: Ashton ha infatti dichiarato che, dopo quattro anni di stasi, nelle prossime settimane il dossier sul made in verrà ripreso ed esaminato. Nel frattempo però la normativa italiana è stata oggetto di modifiche stravolgenti e che destano perplessità. L’obbligo di dichiarazione per le imprese italiane del luogo effettivo di produzione è venuto meno; in compenso si è cercato di stabilire i criteri di massima che autorizzino ad indicare un prodotto come “100% italiano” (o simili espressioni) e si è rivisto il sistema di definizione e sanzione del reato di etichettatura fallace. La definizione del ‘100% italiano’, di per sé meritoria, rimane tuttavia sostanzialmente indeterminata: la norma parla genericamente di progettazione, lavorazione e confezionamento avvenuti esclusivamente in Italia, ma non sarà possibile capire se e come le regole potranno essere applicate finché non ci saranno i decreti attuativi. Quanto all’uso di marchi con modalità tali da indurre il consumatore a riconoscere un’’italianità’ del prodotto che in realtà non sussiste, la nuova norma parla di fallace indicazione, ma la sanziona in forma attenuata rispetto a reati analoghi: si parla di sanzioni non penali ma amministrative, di importo fra i 10.000 e i 250.000 euro. Il contravventore può addirittura evitare la confisca dei prodotti, se provvede a posteriori ad apporre le indicazioni di legge.
“Aver introdotto la forma attenuata di reato di indicazione fallace dell’origine, limitando la sanzione a pene pecuniarie oltretutto non ingentissime, apre una breccia pericolosa – dice il presidente dell’Uip Riccardo Marini -. D’altro canto, invece, è senz’altro positivo lo sforzo per individuare dei criteri oggettivi e non arbitrari per poter dichiarare ‘100% italiano’ un prodotto. Come Unione rimaniamo dell’opinione che in questa materia il principio-guida sia uno solo: la trasparenza. Questo obiettivo può essere perseguito solo con il made in obbligatorio imposto dall’Unione Europea e, con un’ulteriore evoluzione, con la tracciabilità, quindi con la leggibilità anche dell’origine dei semilavorati o quantomeno delle lavorazioni ad essi correlate. Per questo obiettivo l’Unione si sta impegnando fortemente in prima persona”.